Contributo nel centenario della morte di G. Toniolo Stampa

Questo contributo alla celebrazione del centenario della morte di G. Toniolo offerto dal Centro Studi “Ezio Vanoni”, intende sviluppare, dopo una breve Introduzione, tre punti:

1)        la presente congiuntura storica: dovere dei cattolici;

2)        l’interesse rivolto nella settimana sociale del 1922 al concetto di Stato;

3)        «I poveri li avete sempre con voi» (Mt 26,11):l’impegno nel sociale è fuga dalla politica?

 

Introduzione

Il brano del vangelo di Luca 10,1-9 può essere assunto come esplicativo del “vangelo della missione”. Esso è caratterizzato da verbi di movimento quali «andare-tornare; mandare-entrare; restare-uscire; ma anche da quelli che mettono in guardia dalla eccessiva fiducia nel successo immediato (“vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”), dalla sicurezza non priva di calcolo umano (“Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”), dall’entusiasmo dell’annuncio spesso orfano della testimonianza (“Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”).

Infatti la novità dell’essere in Cristo non riguarda solo l’appartenenza che scaturisce dalla fede come se questa dimensione segnasse una discontinuità con l’esistenza reale dei credenti. Appartiene alla tensione apocalittica-escatologica (morte e risurrezione di Cristo) non soltanto che i credenti, giustificati per la fede saranno giudicati dalle opere[1] ma anche che le polarità negate per la fede (“… giudei e greci, schiavi e liberi …”)[2], arricchiscano lo stesso corpo di Cristo: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo … ». Ed è sempre Paolo a mettere in guardia da un’errata incarnazione del messaggio cristiano nell’etica politica[3] che potrebbe indurre i credenti ad esimersi dai propri doveri civili e politici, giacchè si appartiene ad una cittadinanza diversa o superiore, in cui non c’è schiavo né libero. E tuttavia, pur nella considerazione ottimista delle autorità civili[4] è fondamentale riconoscere l’appello che Paolo rivolge alla coscienza dei credenti, quale ultima istanza a cui bisogna obbedire, di fronte a qualsiasi poter civile. L’istanza ultima della coscienza permette di delineare un’etica politica fondata prima di tutto sulla responsabilità e non soltanto sull’autorità, fosse anche quella migliore che operi per il bene dei cittadini[5].

 

1)        La presente congiuntura storica: dovere dei cattolici

La presente congiuntura storica si caratterizza per un insieme complesso di fattori che si sottraggono ad una estrapolazione singolare ed anche al tentativo di stilare una graduatoria esemplificativa degli stessi tanto che la loro sporgenza, o rilevanza di causa, nello sviluppo dei fenomeni sociali deve essere considerata sotto la specie di aggregato unitario risolvibile solo nella sintesi degli stessi.

Ma non vi è dubbio che alcuni tra questi fattori riscuotono un interesse a volte inversamente proporzionale alla loro incidenza reale misurata nel lungo periodo e comunque entrano nel dibattito pubblico solo come riverbero di argomentazioni teoriche sostenute in sedi appartate e da pochi intellettuali. Rimane invece fuori da ogni ulteriore considerazione il fatto che tutti gli indicatori convergono a considerare reale la ipostatizzazione di siffatte «tesi» e che esse, nel momento, sono esponenziali di un movimento centripeto, rispetto al recente passato, che attraversa tutta la società e dagli esiti quasi scontati se si prolunga l’attuale stagione che bene potrebbe essere esemplificata con l’espressione “democrazia del diritto” (secondo una felice espressione non esemplificativa della Simone Weil) piuttosto che “democrazia dell’obbligazione”.

Uno dei fattori indicativo più di altri del progressivo movimento di scostamento e di allontanamento, è sicuramente quello che riguarda la lenta tracimazione dello Stato laico verso la omologazione con lo Stato secolarizzato. Anche nel gergo comune la sovrapposizione è già avvenuta e sempre di più si diffonde il convincimento che laicità è indifferenza religiosa ed emancipazione dalla libertà confessionale, questa sì costitutiva di uno Stato costituzionale. Infatti lo Stato che prescinde totalmente dalle proprie radici culturali e religiose è destinato a diventare semplicemente uno Stato razionale che si illude di trovare nel diritto-forza e nella cultura–collant, il vincolo unificatore comunicante, il sentimento del “noi” che è piuttosto nel sentire religioso condiviso.

Un altro fattore che ci aiuta a delineare la presente congiuntura è di natura economica e parla di un Paese “fermo” secondo l’espressione di Almunia, commissario europeo agli Affari economici. Cresce con il deficit il senso di incertezza e di precarietà diffusa nonché un sentimento di disperazione verso il futuro che come primo risultato accusa il venir meno degli effetti positivi, per la coscienza umana, di un’etica condivisa circa il destino unitario dell’umanità. Sbilanciati sul versante di un liberismo acritico assecondato dalla economia globale (la “globalizzazione” si dà come esito scontato e irreversibile del processo economico) ed anche attratti dalla possibilità di una nuova stagione di interventismo statale, solo se lo Stato fosse capace di autoriformarsi, gli attuali convincimenti esitano sulla strada, mai veramente percorsa fino in fondo, che ogni struttura, quindi anche quella dello Stato, deve essere fedele all’ “essere per cui si è”. Come dire che prima vengono gli interessi del governare (non del Governo) poi quelle delle alleanze, della politica giocata, dell’accomodamento che svilisce la mediazione e genera solo rabbia che si esprime nel comune sentire dell’antipolitica che può, proprio perché estromette il ragionamento, degenerare in movimento che ambisce a svolgere attraverso la surroga la funzione garantista e inclusiva, riguardo alla cittadinanza che è propria dello Stato.

Certamente non va però nemmeno sottovalutato il fatto che i tempi che viviamo se hanno perso molto di quell’ottimismo cattolico che subito dopo il Concilio Vaticano II aveva attraversato la Chiesa e tutta la comunità ecclesiale, rimane però la consapevolezza «per un impeto di verità dello spirito che la religione anzitutto deve essere una luce di verità, un servizio di umanità ed un fatto di realtà»[6]. A rischio di apparire superati non esitiamo ad affermare, con la Rerum Novarum, che sotto accusa non sono né la civiltà industriale in sé e per sé, sebbene sia guardata ancora oggi con sospetto da una certa cultura di matrice marxista, riguardo alla crisi del sentimento religioso del vivere né i processi complessi di ingiustizia che attraversano la società generando “scandalo” come sentimento civile condiviso, quanto piuttosto la subordinazione della cultura e della politica ad un sistema che segue la pura logica materialistica della società dei consumi. Cosa replicare alle affermazioni rivolte ad incentivare i consumi pena la deriva economica del nostro intero sistema produttivo? Come prescindere dal fatto che le conseguenze indotte da tale sollecitazione riguardano milioni di famiglie italiane sempre più indebitate? Va rimesso a tema il significato della presenza cristiana nel mondo che appare come il problema se non il più urgente certamente il più delicato presente alla coscienza dei credenti. A porlo è lo stesso presente storico che ha segnato la fine del temporalismo cristiano, ed anche degli ultimi tentativi di restyling di un costantinismo formato Terzo millennio, richiamando le coscienze alla loro essenziale dimensione religiosa perciò esposta nell’opera consapevole e coraggiosa di tutti per affrontare i problemi di un mondo immensamente dilatato quanto ai confini, ai bisogni, alle imprese. La presenza spirituale ed orante nel mondo resta il dovere fondamentale e il più alto dei cristiani cui non possono rinunciare senza sconfessare la parola di Dio. Il rinnovamento cui il cristiano sempre tende riguarda appunto l’acquisizione di questo dovere ma, per il fatto stesso che la trasformazione che da esso scaturisce è totale, quando essa sia veramente sentita e realizzata si ripercuote su tutta l’attività umana in quanto modifica radicalmente il rapporto con gli altri.

 

2)          L’interesse rivolto nella X Settimana Sociale del 1922 al concetto di Stato

Nello svolgimento di questa sessione dei lavori a Torino il 27-30 aprile 1922, viene messo a tema “La concezione cattolica dello Stato”.

Siamo nella stagione nella quale la fiducia in se stessa e nelle politiche liberiste che dalla nascita accompagna l’economia scientifica subisce una battuta d’arresto. La forza autoregolativa del mercato sta producendo crisi inflattive e deflative con conseguenze non solo economiche. E se il liberismo esclude o riduce al minimo l’intervento dello Stato, i rischi cui l’economia di mercato è esposta ne reclama l’intervento. Questo processo mette naturalmente in dubbio uno dei fondamenti epistemologici della scienza tradizionale: l’idea della “naturalità” delle leggi economiche, che l’economista mutua dalla cultura filosofica predominante al momento della nascita della scienza economica (impregnata di illuminismo e naturalismo).

Ma in questa fase dello sviluppo storico anche un altro convincimento non ha più corso ed è quello roussouniano dell’innocenza, della bontà dello stato di natura. La sfiducia nei fondamenti epistemologici corrode il pilastro che sostiene l’edificio scientifico economico tradizionale e cioè la convinzione che la scienza possa definire il concetto di economicità e dettare le regole per la condotta economica razionale[7]. La fine della veste ideologica della scienza economica, denunciata a più riprese dalla Chiesa, coincide con la “teoria della strumentalità della scienza economica” enunciata negli anni Trenta da L. Robbins[8] secondo la quale spetta ad essa l’onere di indicare i mezzi per realizzare razionalmente (senza sprechi) i fini che l’individuo e la comunità si propongono; alla morale, rispetto alla quale la scienza economica è in una posizione di neutralità, spetta invece la valutazione dei fini. Per questo il tema del X Congresso è di grande attualità in quanto ragiona intorno al ruolo dello Stato, alla sua autorità, ai limiti della sua azione.

La relazione centrale sulla concezione cattolica dello stato democratico, è svolta dal padre gesuita belga, titolare della cattedra di Teologia morale alla Gregoriana, padre A. Vermeersch (1858-1936) che nella prolusione pone una questione di metodo: non si può parlare del ruolo dello Stato, perciò della sua autorità, se prima non si è stabilisce cosa è la libertà. Se i trattati metafisici prendono alla larga la questione descrivendo la libertà “dal di dentro” come «facoltà data all’uomo, essere ragionevole, di determinarsi da se stesso per il si e per il no», e “dal di fuori” come impossibilità per qualcuno di «impedirci di agire a talento nostro»[9], entrando in media res Vermeersch sostiene che la libertà non esiste al di fuori di soggetti liberi perchè essa non è «niente fuori dell’essere libero»[10]. E allora l’autorità? La missione dell’autorità è quella di «favorire e di promuovere quanto può la libertà morale, pegno sicuro di felicità personale e comune»[11]. Lo Stato non esiste come realizzazione per sé stante e finale, ma «come mezzo di piena realizzazione per le persone fisiche che lo compongono»[12]. Non mancano nelle realizzazioni dello Stato moderno, ci ricorda Vermeersch, esiti di «apoplessia nel centro»[13], cioè la tendenza centralizzatrice che determina la paralisi alle estremità, come non mancano atteggiamenti di compiacenza dei governi verso il “lasciatemi fare ciò che mi piace”. La “anarchia morale” è segno dei tempi e di una condizione dell’«uomo moderno, appassionato di avere a sua attività sociale quella stessa facoltà di operare a suo talento ciò che teoricamente possiede nella sfera della sua vita individuale […]»[14].

Questi, in sintesi, i frutti del “domma della laicità” la quale, grazie alla scuola liberale, «in vari paesi latini [ha] imposto delle leggi ed una giurisprudenza che fanno guerra alle congregazioni religiose, e se non altro, le spogliano dei loro beni; e che tolgono ai pii fondatori il mezzo legale di stabilire opere di beneficenza e di carità, almeno in quei paesi in cui l’ispirazione religiosa vuole innalzare lo scopo al di sopra degli interessi materiali della vita presente»[15]. Il colpo che Vermeersch assesta al “domma della laicità” colto come processo che caratterizza la modernizzazione, individua un punto dolens non solo dell’Italia ma anche dei paesi, come il Belgio, i quali sono costretti “dalle leggi e dalla giurisprudenza” a veder cancellata la propria specificità che si incardina in realizzazioni con finalità sociale.

Lo scontro si sviluppa su molteplici piani, riguardando in fondo un impoverimento della stessa società privata di realizzazioni positive: quello delle istituzioni; quello dei poteri concreti; quello della proprietà e del possesso come autonomia di mezzi per raggiungere i fini; quello della formazione, intesa come controllo dell’educazione e delle coscienze; quello dell’etica. Il confronto naturalmente è alto in quanto, dietro le questioni pratiche, la disputa riguarda la “legittimazione dello Stato” che secondo le dottrine liberali risiede nel garantire la “sicurezza” (l’ordine pubblico interno e la difesa esterna). Nient’altro.

Ma, questa dottrina non trova più legittimazione negli eventi: la guerra determina un pessimismo diffuso e giustificato sia verso i temi della sicurezza che quelli dello sviluppo certo ed illimitato. Allora si capisce anche perché la negazione della vecchia teoria della potestas directa vel indirecta Ecclesiae in temporalibus determini, nel momento storico, la non traduzione immediata dell’azione cattolica come azione in politica ma non escluda “l’azione di cattolici” in politica. La teoria sull’origine dell’autorità (“ad politicum imperium quod attinet, illud a Deo proficisci[16]), spiega anche il fine per la quale esiste e la sua azione. Tale teoria contrasta apertamente sia il “darwinismo politico” (il quale «erige in legge universale la lotta per la vita»[17]) che il “contratto sociale” di Rousseau (il quale «lascia nelle anime la persuasione di una ostilità nativa ed irrimediabile tra l’autorità e la libertà»[18]).

La lezione che all’oggi viene dal Vermeersch sul ruolo dello Stato cattolico a noi sembra, pur nella diversità della storia che non si ripete mai allo stesso modo, assumibile almeno per quattro considerazioni: 1) la crisi delle politiche liberiste e la globalizzazione che rende globali anche i fenomeni del sottosviluppo; 2) la crisi del sentimento di appartenenza alla plebs fidelium, il popolo di Dio che contrasta con tutta la teologia di apertura al mondo scaturita dal Concilio Vaticano II; 3) la messa in discussione del ruolo svolto dalla Chiesa e dalla stessa cultura cattolica (vedi la vicenda della Costituzione europea); 4) l’urgenza della situazione politica del nostro Paese che vive la crisi del ruolo della politica come crisi di autorità dello Stato.

Oggi come allora fra consenso e dissenso al nuovo che avanza, i cattolici si avviano a vivere una stagione che reca auspici negativi e che chiede un supplemento d’impegno il quale, consapevole del passato, affronti il cambiamento possibilmente accompagnandolo. Non è definitivamente tramontato il sogno di “restaurazione della cristianità” tant’è che la tentazione di poter “cristianizzare il marxismo” tocca non pochi cattolici ben pensanti.

A questo proposito, oggi come allora rispetto al fascismo, si avanza il dubbio che riguarda l’ordine dei fini morali, se e come questi intersecano gli aspetti “formali” del potere. Così, sebbene attraverso un difficile confronto, la Chiesa incrocia di nuovo il tema della democrazia. Il problema riguarda da un lato l’individuazione di ciò che il cristianesimo, nella sua specificità, può dire e fare in campo sociale e che può essere colto anche dalla sola “ragione naturale” come ricchezza per ogni tempo e per ogni uomo. Ma, dall’altro, riguarda il modo in cui questa specificità può essere offerta alla società, soprattutto in una società plurale e nella quale il comune denominatore non è la fede ma le fedi. Può verificarsi, oltre che sperarlo, un incontro tra premesse d’ordine filosofico-metafisico e quelle di un ordine che non sia né filosofico nè metafisico? La questione rivela tutta la sua complessità, là dove ci s’interroga sul luogo, sui modi, sullo stile dell’intervento del cristianesimo sul terreno di ciò che non è da tutti condiviso, perché ci sono divergenze nelle stesse premesse. Il problema è delicato e comporta di decidere se il servizio della presenza ecclesiale, dei laici insomma, nella società civile e politica deve concentrarsi nel servizio alle “convergenze etiche” o se debba assumere altri aspetti ulteriori.

Siamo arrivati al cuore del problema del rapporto tra etica e politica, tra Chiesa e mondo, tra dottrina e democrazia che allora come oggi, ma già ai tempi di Diogneto, sconta l’ossimoro della «doppia cittadinanza» e dell’estraneità, ma non della indifferenza, del cristiano al tempo presente in quanto immerso nella dimensione del tempo escatologico. Se il dialogo sembra essere la via necessaria per ricomporre in unità diversità che rischiano di divenire forze centrifughe rispetto al disegno di una società che la globalizzazione rende aperta e perciò diversificata e multipolare, il teologo J. Ratzinger avverte: «Esistono diritti umani, esistono valori fondamentali dell’uomo, che non possono mai essere oggetto di dibattito; soltanto l’accordo su questa base comune permette una discussione ragionevole sulle cose via via da regolare»[19].

Quasi anticipando gli sviluppi attuali, lo spazio che Vermeersch assegna al metodo della gradualità è oggi consegnato alle possibilità del dialogo; un dialogo che si affida agli ordinamenti politici, crede alla democrazia, sollecita l’impegno dei cattolici e che sottrae argomenti a quanti nella cosiddetta “doppia cittadinanza” colgono un limite. Sottrae anche argomenti a tanti cattolici che giustificano la autoesclusione. “In ciò non si annuncia forse una nuova privatizzazione della fede, una privatizzazione molto più pericolosa di quella che si combatte nelle forme del singolo kierkegaardiano e della teologia esistenziale? È chiaro infatti che non è possibile prendersi cura del prossimo concreto e di ciò che è politicamente hic et nunc raggiungibile e fare nello stesso tempo scomparire, con gioiosa speranza, tutto l’esistente nel fuoco dell’escatologia”[20].

 

3)          «I poveri li avete sempre con voi» (Mt., 26,11): l’impegno nel sociale è fuga dalla politica?

La frase evangelica riportata ha fatto scorrere fiumi di inchiostro in quanto è sembrata rinchiudere l’impegno cristiano nel recinto della fede, dell’ottimismo affidato alla speranza, dell’utopia consegnata ai buoni sentimenti, dell’inanità dell’azione votata alla sconfitta della storia. Essa messa in rapporto con l’interrogativo, apparentemente retorico, che figura nel vangelo di Luca: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» consegna definitivamente l’attesa della parusia alla volontà tenace, alla resistenza attiva poiché avanza dubbi sul compimento. Una esegesi attenta ed una pastorale avvertita sottolineano invece che l’affermazione di Matteo individua nella storia il terreno ove deve esplicarsi pienamente l’operatività dell’uomo mentre la domanda di Luca apre spazi attivi all’intervento di Dio per realizzare il Regno di giustizia che è strettamente collegato ed interrelato alla esistenza della fede. Solo se questa viene meno si appanna anche ogni ulteriore e concreta possibilità nel senso che questa è sottratta all’impronta cristiana anche se non è impraticabile a disegni di altro segno. Gli studi recenti sull’opposizione cattolica italiana, o meglio sulla resistenza della Chiesa alle varie espressioni della modernità e soprattutto al processo di laicizzazione della società, avvertito come dirompente nei confronti della societas christiana, hanno portato alla luce come l’apparizione del movimento politico-sociale della democrazia cristiana modifica gli orientamenti e i raggruppamenti dei cattolici italiani nel Novecento. La democrazia cristiana indica due fenomeni diversi anche se mai nettamente distinti: da un lato il grande movimento etico-sociale promosso da Leone XIII in tutta la cattolicità per l’elevazione del “quarto stato” e l’armonia fra le classi, dall’altro individua un movimento (o partito) politico-sociale di democratici che a partire dal Belgio interessa altre nazioni europee e per tutto il Novecento. Cogliere la dialettica che intercorre tra i due fenomeni, quello del conservatorismo e quello dell’innovazione, significa comprendere anche la difficoltà della Chiesa a trovare di volta in volta una modalità d’intervento e presenza nella storia e la difficoltà dei cattolici impegnati in politica a riconciliarsi con le libertà moderne che implica comunque una doppia rottura nei confronti del dottrinarismo della Chiesa e nei confronti della ideologia di stampo liberale borghese.

Si gioca nell’intersezione tra i due fenomeni non solo la qualità della presenza cattolica ma la qualità o lo spessore della sua strategia politica. Scrive F. Garelli[21]: “In sintesi il baricentro dell’azione della Chiesa italiana si sta spostando dal cattolicesimo sociale a quello culturale, da una funzione di supplenza e di integrazione sociale a quella più impegnativa di rinnovamento identitario”.

C’è chi interpreta questo movimento di abbandono di un “centro”, nel tentativo di ricostruirne per sé uno diverso assicurandosi la centralità nella società e tra gli interlocutori politici, come l’apertura di una nuova stagione di confronto e competizione con i diritti reclamati dalla tarda modernità, in uno scenario pluralistico, per affermare la propria egemonia culturale. Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto amputando tutta una storia politica cattolica che in maniera ampia, e non sempre specificando le categorie d’interpretazione, è definita genericamente di “sinistra”.

Non manca la percezione che “sinistra”, “destra”, “transigenti”, “intransigenti” sono contenitori superati di uno schematismo logico-ideologico che non ha più ragion d’essere dopo il 1989 ma è che anche le espressioni, quali “teodem”, “teocon”, “atei-credenti” balbettano nel tentativo di riprodurre, incapsulandolo in formule, la complessità di un dibattito che riguarda ancora la Chiesa e la modernità, la Chiesa e i fedeli-laici, la Chiesa e lo stato democratico. In sostanza “la questione cattolica” o meglio la cultura di un certo progressismo cattolico che è nata pensando di convertire alla modernità la Chiesa.

Non si va lontani dal vero se si parla di “sindrome di accerchiamento”[22] che riguarda sia la Chiesa ma anche la laicità come cifra di lettura della modernità identificata col relativismo etico, con l’edonismo, col materialismo, con lo scientismo. E non si va lontani dal vero se si afferma che la Chiesa vuole sfuggire all’accerchiamento usando una modalità certamente  non nuova ma non “consumata” dal tempo: l’appello diretto alla società civile, un riferimento diffuso al sentimento popolare, un invito alla plebs fidelium che ha una forte presenza pubblica. Infatti, la presenza pubblica del cattolicesimo italiano si manifesta nella proposta culturale in merito ai temi decisivi della convivenza e della regolazione sociale e la Chiesa ha una sua proposta forte riguardo al problema della “inclusione sociale”. E, proprio rispetto a questo tema la modernità sembra giunta ad un punto di rottura, ad una fase critica rispetto alla risposta che la ricerca del senso individuale e collettivo, esige.

Michael Walzer[23] si esprime in questo senso quando ammette che le religioni possono colmare il vuoto che caratterizza le società avanzata prodotto dal secolarismo liberale. In questo quadro si guarda alla Chiesa e alle Chiese per la funzione sociale che possono svolgere ma chiedendo loro di abbandonare le specifiche identità confessionali. La Chiesa è stretta in questa congiuntura storica nella quale corre il rischio di indebolire l’identità religiosa che è data dalla fede e dall’appartenenza depotenziando anche l’accentuazione sui valori non “negoziabili” orizzonte di un ethos collettivo piuttosto che esplicitazione della fede. “Come si configura, il rapporto tra Chiesa e mondo, caratterizzato insieme da simpatia per gli uomini e da rottura con la mondanità? Come declinare la fede, e più generalmente la vita spirituale, a cui ogni cristiano dovrebbe dare il primato, perché non si imponga a chi non crede ma cerchi di aprire cammini di senso per tutti? Quale forma deve assumere la Chiesa per la sua presenza specificatamente cristiana tra gli uomini senza finire per stemperarsi e ridursi ad annuncio etico, a messaggio politico, a filantropia?”. Questa domanda come ce la propone Enzo Bianchi[24], riassume il confronto con la modernità avanzata come questione che il presente lavoro cerca di indagare. Essa, in conclusione, può schematicamente riassumersi in quatto punti rispetto ai quali vanno anche ridefiniti i criteri di convivenza in settori cruciali della vita pubblica.

Essi sono: 1) Quale è il tempo del cristiano: quello della presenza o quello dell’attesa? Si tratta di vedere se la prima sia un ostacolo alla seconda o se la seconda segna una discontinuità con la prima. 2) Il rapporto che intercorre tra democrazia e religione. La religione è un ostacolo o un prerequisito alla democrazia? Si tratta di vedere in che senso la religione sia l’una e/o l’altra cosa. 3) Quale logica emerge nei rapporti tra democrazia e religione in una società plurale investita da processi di differenziazione asimmetrica che comportano problemi di relazione reciproca? 4) Per orientarsi verso il futuro vanno ridefiniti gli scenari della sfera pubblica perché diventi effettivamente “relazionale”? In questo ambito si pone anche il problema dell’impegno dei cattolici in politica e quello dell’unità degli stessi nella vita politica.

Da un punto di vista teologico tutti e quattro i punti sono sottoposti alla verifica che, partendo dalla speranza come segno distintivo cristiano e della comunità cristiana, evidenzia anche la contraddittorietà di questo segno. Infatti i cristiani, mentre propongono la croce come “speranza del mondo”, la indicano anche come l’unica vera alternativa alla logica del mondo. Soprattutto perché la speranza cristiana manifesta un elemento “trascendente” che si coniuga con un elemento storico-immanente. La speranza cristiana da una parte chiama in causa, la categoria dell’ “attesa” che rimanda sempre ad un “non ancora”, ma anche quella dello “impegno”.

La escatologia del compimento segna il tempo della Chiesa in quanto comunità di salvezza ma ci dice anche che il tempo dell’attesa non è consumazione di una quantità assegnata, bensì è “durata”dell’evento che “avviene” nel tempo. Se con K. Rahner si conviene che la “rivoluzione” è un concetto molto indeterminato[25] e suscettibile di svariatissime eccezioni, si può dire che la “speranza cristiana vien messa avanti come pedana di lancio d’un atteggiamento perennemente rivoluzionario, che i cristiani devono assumere nel mondo”. La rivoluzione consiste nella “autorizzazione e ordine di intraprendere continuamente un nuovo e fiducioso esodo dal presente per inoltrarsi nel futuro (anche intramondano)”. La teologia della speranza si configura così come la teologia dell’esodo, di un esodo perenne e pure sempre nuovo. La terra è oltre se la pensiamo come destinazione finale per tutti ma è qui nei confini del nostro spazio, e perciò affidata al nostro operare, se la pensiamo come un “nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per di più al di là delle loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento”[26].

Ma veniamo al primo punto che , in quanto presuppone l’essere del cristiano tra presenza ed av-venire, sfida le categorie filosofiche a risolvere l’ossimoro della immanenza – trascendente, del finito - eterno, del qui - altrove, del presente – av-venire. Una condizione quella del cristiano, stigmatizzata nel Vangelo con una espressione lapidaria laddove si dice che Egli è nel mondo pur non essendo del mondo. Con altre parole, leggiamo nella lettera a Diogneto che “[I cristiani] passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo; obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro tenore di vita superano le leggi”. Questa “doppia cittadinanza” è stata più volte contestata nella storia e dalla storia dando luogo ad un giudizio negativo riguardo all’affidabilità del cittadino cristiano chiamato ad obbedire a due padroni, secondo il giudizio del Rousseau.

L’ossimoro è tale se, secondo la logica cui siamo abituati, la categoria del futuro impegna quella della “consumazione del tempo”, e perciò quella dell’attesa. Tale attesa riguarda la possibilità di godere del frutto del nostro operare e quindi si configura solo come speranza che abita la terra dell’utopia. Come dire di un oltre che sempre ci sovrasta e sconfigge. La visione dell’eternità, cioè del tempo escatologico che si configura come qualcosa d’altro o di diverso dal tempo storico, chiama in causa l’impegno del laico cristiano nel mondo ma soprattutto chiama in causa, la missione della Chiesa.

L’eternità infatti, non é un altro tempo, né la prospettiva della vita futura soddisfa la nostra ansia di eternità esorcizzando la paura del morire. Esiste un tempo che finisce ed uno destinato a non finire mai? In effetti esiste la nostra capacità di portare a compimento il disegno eterno di Dio che riguarda certamente i “cieli nuovi e la terra nuova” solo se noi siamo in grado di trovare un luogo ove far abitare la speranza che ora è già alle “porte della storia e bussa”. Il tempo che ci è dato, è la durata della nostra fattività, il tempo della Rivelazione come compresenza di attesa operosa, fatica che spera, profezia che accoglie il dono di Dio che si compie, questo sì, sempre per sempre.

“Ora basta Signore” grida Elia sedendosi sotto un ginepro dopo una giornata di cammino nel deserto. Ma un angelo reca un impegnativo invito: “Alzati e mangia […] perché troppo lungo per te è il cammino” (1 Re., 19, 4-8). Alla luce di questa sollecitazione biblica, la risposta capace di sciogliere l’ossimoro di cui abbiamo detto, è la seguente: tutto passa perché diventa il tutto di Dio. La speranza, che stiamo mettendo a tema, è memoria dell’elezione che ci è alle spalle e promessa della benedizione che ci è davanti per cui il tempo che viviamo si configura come durata piuttosto che come successione frammentata e non solo di tappe e di eventi ma di generazioni che spesso si sentono estranee le une alle altre. Cristo che “fa nuove tutte le cose”, è qui e ora, nei luoghi che abitiamo, nelle azioni che compiamo, nei sogni che il nostro cuore coltiva, nelle strutture dove si svolge la nostra vita.

Afferma Moltmann[27], che tra le tante domande che assillano l’uomo, una soprattutto angustia il cristiano e la domanda è: “Se ora io faccio ciò che devo, che cosa mi è lecito sperare?” Ad essa non si può rispondere senza la convinzione che abitare i luoghi della speranza, nel senso che in essi possiamo vedere il compimento di ciò che speriamo, significa intraprendere il viaggio verso la terra promessa e quindi significa impegnare la promessa, fatta ad Abramo, che “sul monte il Signore provvede”(Gen., 22, 14). Infatti non tutto quello che facciamo congiura al suo risultato ma tutto si realizza purchè intraprendiamo il viaggio.

Ora il secondo passaggio che ci interroga sulla doppia cittadinanza del cristiano: rispetto alla città del cielo e a quella terrena.

 

“Non ero profeta, né figlio di profeta,

ero pastore e raccoglitore di sicomori,

Il Signore mi prese

di dietro al bestiame e il Signore mi disse:

Va, profetizza al mio popolo Israele”(Amos., 7, 14-15).

 

Non ci sono luoghi sicuri, funzioni stabilite, appartenenze definitive che non possano essere sconvolte o rigenerate dalla speranza. Non è un caso che nei vangeli manchi il vocabolo speranza e che esso sia sostituito con espressioni che invitano all’affidamento (quali “Non temete”) e che sollecitano l’impegno (come “Cercate”). Il realismo evangelico consiste appunto in questo che: “la speranza concerne l’orizzonte temporale e presente”[28]. La Rivelazione si pone in rapporto alla storia fattuale come dichiarazione della sua incompiutezza. L’intreccio delle problematiche che pesano sulla questione che si vuole mettere a fuoco, e che riguarda l’impegno del fedele laico nella storia, sconta anche la possibilità che comunque la giustizia non si realizza nel mondo; che anche il disegno di Dio, e non solo l’azione e la intenzionalità umane, si rivelano insufficienti. Molto spesso ci troviamo a considerare che la pace, la giustizia abitano altrove e riguardano una umanità diversa, un mondo diverso, una storia diversa se è vero, come è scritto nel Vangelo, che “i poveri li avete sempre con voi” (Mc., 14, 6). E questa è il sommo della ingiustizia o la somma di tutte le ingiustizie. La speranza, allora, rispetto al nostro operare dentro la storia della Rivelazione come si dispiega? L’esistenza è quella di cui ci parla il Qoèlet votata all’inanità e all’irrilevanza in quanto “il momento, il tempo per ogni cosa” significa che “tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere”? (Qoèlet, 3, 20). E “chi potrà infatti condurlo- l’uomo- a vedere ciò che avverrà dopo di lui?” Tutte le utopie della storia si infrangono nello scoglio della speranza cristiana che è lì come pietra di inciampo a reclamare dagli uomini l’ipoteca che essa stessa mette sul tempo dello “stolto che incrocia le braccia e divora la sua carne” (Qoèlet, 4, 5).

Se è vero che il secolo più malato, secondo l’espressione di Levinas (nel “Saggio sull’indifferenza in materia di religione”), non è quello che si appassiona per l’errore, ma quello che disdegna la verità, il secolo che viviamo è caratterizzato dall’indifferenza per i valori.

La contemporaneità in quanto governata dalla libertà, può essere considerata, come suggerisce Kierkegaard, categoria del “tempo emergente nel tempo fluente” ed allora il problema cruciale per il cristiano oggi è quello di individuare la relazione nuova che intercorre nei rapporti tra democrazia e religione. “Il politeismo dei valori” secondo la nota definizione di Weber, rivendica alla democrazia la capacità di realizzare una società pacificata come nota qualificante di una “democrazia governata”. Dunque: coesistenza dei valori o resistenza dei valori tra loro?

Il tema del dialogo ripropone quello della tolleranza. Essa deve tener presente una delle due possibilità che la democrazia reclama come legittime al fine di promuovere una sfera pubblica che sia configurabile come “società dell’umano”. Prima possibilità: la democrazia può e deve, valorizzare e governare la complessità religiosa o, seconda possibilità, piuttosto reclamare la in-differenza, nel senso di differenza negata alla verità? In sostanza: il cristiano può esigere che la democrazia come prerequisito assuma le ragioni della fede o questa responsabilità deve essere negata alla ricchezza della democrazia? Se rispondiamo che lo spazio pubblico, cioè governato, riguarda soltanto la possibilità di organizzare l’ambito produttivo della vita condivisa, come la divisione e la spartizione delle risorse, per evitare che essa non diventi, una guerra omnium contra omnes, il diritto alla identità religiosa, in questo caso, riguarda solo la coscienza e quindi lo spazio del privato che più privato non si può.

Le domande nascondono un nuovo modo di porre in relazione la democrazia con la religione perché consideriamo cruciale la questione con la quale si apre la modernità che è così posta: la religione costituisce un ostacolo o un prerequisito alla democrazia? Ed ancora: in che senso e in che modo è l’uno o l’altro? Una società, insomma, può vivere, accrescersi, arrivare a pienezza, etsi Deus non daretur? Può una società privarsi del fattore positivo rappresentato dalla religione per lo sviluppo della democrazia? La risposta è semplicemente negativa considerando che la religione implementa la democrazia almeno di due aspetti vitali e per i quali, malgrado le difficoltà la democrazia è considerata il migliore dei governi fino ad ora possibili.

Il primo aspetto riguarda la possibilità, considerata come compito specifico della democrazia, di sviluppare una società che assume la differenza del potere, quello politico e quello religioso, come essenziale alla vita dello Stato. Tale differenza non riguarda solo gli ambiti e le finalità. Il secondo aspetto riguarda il fatto che la religione consente una sfera pubblica che si caratterizza come plurale.

Il terzo punto che ci siamo proposti rimanda alla logica relazionale nei rapporti tra democrazia e religione/i. Il modello della modernità, realizzato in Occidente, solleva due grandi questioni. La prima sottolinea che una democrazia non può alimentarsi solo di valori procedurali. La seconda sottolinea che una democrazia al fine di cimentarsi non può attingere in continuazione alla fiducia e al capitale sociale della società civile. Queste due questioni infatti rivelano il paradosso del quale vive la democrazia se privata dell’apporto che ad essa viene dalla religione. Infatti essa, la democrazia, o degenera nella pura e semplice amministrazione di interessi materiali contrapposti o è costretta continuamente ad immunizzarsi dalla contaminazione con ciò che è veramente ed esclusivamente umano (come la fede religiosa) e la qualità della vita il sociale. Questa contaminazione ha fatto esplodere dall’interno non solo i grandi sistemi ideologici del Novecento, ma anche gli imperi che su di esse si sono costruiti.

Oggi la formula illuministica deve fare i conti con una nuova modernità o meglio con altre modernità interne ed esterne all’Occidente e per poter raggiungere l’obiettivo di quella che abbiamo chiamata “democrazia governata”, deve percorrere una “terza via” tra quella della cosiddetta “democrazia anonima” e quella della “democrazia eticamente qualificata”[29]. In sostanza il modello occidentale che ha configurato una relazione “adiaforica” fra religione e democrazia, è in grado di risolvere i paradossi ed i dilemmi della modernità? Allora: quale democrazia per la religione ma soprattutto quale “religione per la democrazia”.

La complessità che abbiamo davanti che si presenta come problema anche soltanto da un punto di vista di ordine sociale, sembra respingere sia il modello della privatizzazazione (la secolarizzazione) che della radicalizzazione (il fondamentalismo) ma stenta ad assumere quello della “qualificazione religiosa della sfera pubblica”. Questa è la terza via cui si accennava e non va nella direzione sostenuta, anche da fonti autorevoli, di “una religione civile”. Essa considera invece tre fattori: 1) quello della relazionalità umana; 2) quello della soggettività della società civile; 3) quello della prevalenza della “politica dei diritti” rispetto ala “politica dei beni”.

Per i cattolici è venuto il momento di girare pagina rispetto alla storia recente dei rapporti con la modernità e perciò con la democrazia almeno nella sua accezione liberale per varcare la soglia del cosiddetto “dopo-moderno” (la definizione è di Pierpaolo Donati). In esso, la tolleranza è la regola dello spazio del dialogo sui confini, là dove precisamente sta la sfera pubblica. La sfera relazionale comune se afferma che nessuno possiede il monopolio della verità, non nega l’esistenza della verità. La dopomodernità pone a tema la continuità tra la sfera pubblica e quella privata nella convinzione che la identità e la cittadinanza, come pienezza della propria umanità, non si risolve nella sfera privata. Per la Chiesa e per il cittadino laico credente, si apre una nuova stagione di impegno sul versante della laicità che reclama il diritto naturale della persona umana ad incidere nella costruzione di una società pienamente e veramente umana con i propri valori etico-religiosi. La laicità non consiste nel diritto alla separazione delle sfere ma nella possibilità continuamente sperimentata della “reciprocità” fra le due sfere siano esse anche quelle della Chiesa e dello Stato. “L’universalismo sensibile alle differenze” di cui parla Habermas è capace di includere altro salvaguardando contemporaneamente la diversità.

Il quarto passaggio riguarda la carità in politica

L’impegno politico diventa allora l’imperativo categorico che esprime la “sollecitudine umana” del cristiano nei confronti della società. E si presenta quanto mai gravido di attualità il dilemma che ha segnato la nascita del movimento sociale della democrazia cristiana prima che essa diventasse partito politico segno dell’unità dei cattolici nell’agorà pubblica. E questo non solo perché l’impegno sociale se è vissuto nella giustizia si rivela costitutivo della persona umana, ma soprattutto perché esso si rivela degno di essere investito in una responsabilità civica in vista di un ordine sociale più giusto. Se consideriamo l’unità politica come un mezzo, alla stregua della stessa politica, occorre anche verificare se sul piano della strumentalità tattica, l’unità politica è da preferirsi, ed anche il perché, ad altre strumentalità, come ad esempio quello della militanza e della collocazione diversificata, sul piano delle opzioni, dei cattolici nelle diverse associazioni partitiche. Questa militanza in qualche modo infatti implementa di valori cristiani aggregazioni partitiche che altrimenti ne sarebbero prive. Non solo. Se l’unità è un mezzo, esso è soggetto ad una verifica continua circa la sua validità ed anche ad un giudizio di complementarietà, o meglio di compromesso, con altri diversi mezzi che rinviano a visione strategiche diverse della definizione e della raccolta del consenso della società.

Ma l’unità perde così il suo valore intrinseco. Ma se consideriamo invece l’unità un fine, essa sottende una visione dell’uomo e delle aggregazioni sociali e politiche ove si svolge la vita, che non si può patteggiare con le altre se non per quel che riguarda le tappe intermedie di un disegno rispetto al quale l’unità è strategica.

La Chiesa deve fidarsi dei laici ai quali è demandata la responsabilità delle scelte temporali e rendersi disponibile a farsi partecipe di un disegno più complesso che non può ridursi a semplice patrimonio elettorale, a merce politica, perché il disegno complesso, che è appunto quello dell’unità, e non solo dei cattolici in politica, ma della società, vive o muore, cresce o si impoverisce, nella misura in cui una proposta politica è capace di interpretare le aspirazioni etiche e religiose, per la pace, la solidarietà, la responsabilità, il rispetto della vita, della giustizia e della carità che, non sono esclusive dei credenti e perciò riguardano la costruzione di uno sviluppo mondiale più giusto.

Non ci sono scorciatoie e non ci sono alibi in grado di minimizzare la sollecitazione a “farsi profeti” nella società come non c’è l’esclusiva del mandato. Le donne e gli uomini sono chiamati a scelte concrete e immediate dentro un sistema sociale che è cresciuto in complessità e conflittualità. Se è vero che la parte cattolica della democrazia italiana, si dispone oggi secondo linee di appartenenza meno tradizionali e che si è fatta più mobile e collaborativa rispetto al recente passato, è anche vero che essa è portatrice di una democrazia e di uno spirito di alleanza che non è stato ancora interpretato e valorizzato pienamente.

Anche oggi l’umanità si mostra agli occhi attenti come apparve agli occhi di Gesù “…un gregge senza pastore” (Mc. 6, 33). Rispetto alle tante necessità, la sfida che più ci sembra prossima è quella che invita alla profezia senza distinzione di status e di ruoli perché, “Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie” (Gioele, 3, 1). Così dice il Signore.

Di fronte a questo stato di cose, la domanda sul che fare nelle coscienze di quanti hanno a cuore la sfida del tempo presente, non appare superflua.

Bisogna tornare al pensiero scomodo, controcorrente, dal quale siamo partiti, cioè la sfida della speranza che non è scontata ma comprensiva della trascendenza. Se non altro perché dopo il crollo delle ideologie, la religione non è più solo una tra le tante chances tardo moderne, ma un elemento infrastrutturale profondo. Dopo Palermo la Chiesa ha ri-progettato, nel senso etimologico del termine di “gettare – avanti – oltre, il futuro altro che solo le ardite profezie riescono a realizzare.

Ma qui trapela l’ipoteca forse più grave della mancata unità sociale e politica dei cattolici oggi. Infatti oggi accade che i cattolici in politica si assumano la responsabilità della interpretazione autentica della Dottrina Sociale della Chiesa, ciascuno per la propria parte.

Già si può constatare che il valore diventa il terreno della “trattativa” piuttosto che della “convergenza” come si constata che anche  per tanti cristiani la difesa dei valori riguarda solo l’ambito della coscienza o del privato a meno di non affidarla ai cosiddetti “cristiani anonimi” che oggi hanno il volto degli “atei” che si autodefiniscono “atei cristiani”. Il cristianesimo diventa così un valore sociale privato o immunizzato dai valori cristiani.

 



[1] cfr. Rm 2, 1 -6 rispetto a Rm 3, 21 -26

[2] Cfr. 1 Cor 1,13.

[3] Cfr. Rm 13,4.

[4] Cfr. Rm 13,1-7.

[5] Per evitare facili fraintendimenti a riguardo è bene richiamare lo stupendo paragrafo della Gaudium et spes, 16.

[6] C. FABBRO, Crisi della religiosità contemporanea, conferenza svolta nella Sala Borromini il 9 nov.embre 1966.

[7] Sull’evoluzione dei rapporti tra economia ed etica: F. DUCHINI, Aspetti e problemi della cultura economica italiana: 1926-1940, relazione al Convegno Cultura e società in Italia dal 1926 al 1940,Milano 14-18 settembre 1987 ( atti non ancora pubblicati); Cattolicesimo e liberalismo a cura di A. CARDINI e F. PULITINI, Atti del Convegno di Studi Certosa di Pontignano- Università degli Studi di Siena, 16-17 ottobre 1998, Catanzaro 2000.

[8] L. ROBBINS, An essay on the nature end significance of economic science, London 1932, p. 25.

[9] A. VERMEERSCH, L’autorità dello Stato e la libertà. Relazione tenuta al X Congresso di Studi sociali, Torino 27-20 aprile i922, Roma 1923, p. 85.

[10]Ibidem, p. 88.

[11] Ibidem, p. 90.

[12] Ibidem, p. 90.

[13] Ibidem, p. 90.

[14] Ibidem, p. 89.

[15] Ibidem, p. 89.

[16] LEONE XIII, Diuturnum illud, 29 giugno 1891.

[17] A. VERMEERSCH, L’autorità dello Stato e la libertà. Relazione tenuta al X Congresso di Studi sociali, Torino 27-20 aprile i922, Roma 1923, p. 91.

[18] Ibidem, p. 91.

[19] J. RATZINGER – H. MAIER, Democrazia nella Chiesa, Possibilità e limiti, Brescia 2005, p. 95.

[20] Ibid., p.76.

[21] F. GARELLI, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna 2006, p. 18 ss.

[22] L’espressione è usata da G. ZAGREBELSKI in un articolo, L’identità cristiana e il fantasma dell’assedio, apparso sul quotidiano la Repubblica del 5ottobre 2005.

[23] M. WALZER, Tracciare il confine. Religione e politica, Relazione presentata alla Fondazione G. Agnelli, Torino, maggio 1996.

[24] E. BIANCHI, Cristiani nella società, Milano 2003, p. 9-10.

[25] K. RAHNER, Sulla teologia della speranza, in Nuovi saggi III, Roma 1969, p. 647 ss.

[26] GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura al Concilio Vaticano II

[27] J. MOLTMANN, Critica della ragion pura: Dottrina trascendentale del metodo,  cap. II, sez. II, Bari 1995, pp. 495-496.

[28] PAOLO VI, Messaggio della Pasqua del 1971.

[29] Per tutta questa parte si rimanda a P. DONATI, Lo spazio difficile della laicità per una qualificazione religiosa della sfera pubblica, in L’identità in conflitto dell’Europa, a cura di L. Paoletti, Bologna 2005, pp. 91-169. La “democrazia anonima” definisce un sistema politico che garantisce per tutti una sfera impersonale, anonima appunto, procedurale, dove ciascuno persegue i propri obiettivi senza intralciare quelli degli altri. E’ il modello realizzato nell’America del nord o tocquevilliano-parsoniano. La “democrazia eticamente qualificata”, invece, definisce la democrazia come sistema politico che persegue il bene comune. La sfera pubblica è comunità di discorso tra gruppi sociali sulla base di alcuni requisiti eticamente fondamentali che trovano riconoscimento nella comunità politica la quale assume il bene comune come finalità del governare.

 

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