Recensione de "Il valore delle differenze culturali" Stampa

«SOCIOLOGIA DEL DIVERSITY MANAGEMENT: IL VALORE DELLE DIFFERENZE CULTURALI»

di Donatella Padua

 

«Il credo della crescita si fonda su due dogmi. Primo dogma: la crescita economica è la fonte del benessere sociale. Secondo dogma: la crescita economica è la fonte della pace sociale». Il destino del capitalismo veniva sintetizzato con queste parole, alla fine degli anni Ottanta, da Giorgio Ruffolo[1] che nella sua qualità di Segretario alla programmazione economica negli anni Settanta (considerato il decennio del “grande balzo” o della migliore performance delle società industriali capitalistiche) aveva potuto osservare da vicino il grande bluff - o la grande “speranza”, a seconda della prospettiva - contenuto nella equazione sistemica che la crescita economica sta al benessere come alla pace sociale. Ma perché l’equazione fosse corretta doveva contenere l’incognita costituita sia dal sistema politico che da quello sociale, come dire dal fattore umano, per questo abbiamo parlato di bluff, senza dimenticare, però, di sottolineare che vi è un errore, come dire «pregiudiziale» insito nello stesso fondamento epistemologico della scienza economica. Esso consiste nel considerare il capitalismo un sistema chiuso ed autosufficiente che relega tutti gli altri fattori sullo sfondo del quadro. Questi occupano una posizione marginale per il fatto che sono da considerare al massimo, «variabili dipendenti» dalle contraddizioni interne al sistema capitalistico (come in Marx) o anche «variabili indipendenti» dalle contraddizioni esterne allo stesso (come in Schumpeter): in ogni caso la loro posizione è sempre «periferica» e sostanzialmente ininfluente rispetto alla logica che presiede allo sviluppo e alla crescita. Oggi sappiamo che non è così.

Tutto è cambiato, ed anche repentinamente, costringendoci ad una «conversione», che sa anche di retromarcia, rispetto al metodo usato fino al recente passato: i problemi studiati e analizzati separatamente, chiusi nel recinto della loro “tipicità” che, isolandoli, recide ogni possibilità di interconnessione e reciproca influenza. Schematizzando al massimo si potrebbe dire che la «specializzazione» (intesa come articolazione interna di una scienza) e la «frammentazione» (intesa come perdita delle interconnessioni o delle correlazione tra le varie scienze) ha impedito la feconda «contaminazione» insita in una concezione unitaria del sapere sia che individui nell’essere il suo principio unitario (come nella cultura classica) o nel soggetto (come nei diversi storicismi derivati da Hegel) portando a compimento il moderno o, secondo una diversa opinione, inaugurando il post-moderno. Il problema per dirla con Niklas Luhmann[2] è la crescente complessità delle società, ed in genere della cultura che oggi sconta anche il difficile varco costituito dalla situazione di interculturalità. Come dire che il metodo sociale è costretto ad una dislocution nel campo delle diverse discipline.

Questo fa lo studio di Donatella Padua che col suo «Sociologia del Diversity management. Il valore delle differenze culturali» affronta il tema difficile della integrazione e gestione dell’inclusione sociale che vuole sfuggire alla forbice delineata da Bauman che ogni processo di inclusione sociale segue una strategia di assimilazione o estinzione puntando invece sulla applicazione del paradigma relazionale al Diversity Management. Questo scommette sul «concetto di reciprocità» (Wechselwirkung) che oltre ad essere uno degli aspetti più attuali della sociologia simmeliana, costituisce la possibilità di fare i conti con il «diverso» e il «differente» che non sono sinonimi bensì racchiudono areopaghi di senso questi sì «differenti» nel senso che si oppongono per diseguaglianza.

Certamente dietro e dentro la scelta operata c’è un elemento che va sottolineato ed evidenziato. Esso offre, a confronto degli esiti negativi delle teorie di inclusione sociale fin qui sperimentate (quelle fondate sul principio dello «scambio» o quelle fondate sul principio della «reciprocità») una spiegazione sia alle ragioni del loro fallimento che un sostegno alle positive possibilità offerte dal «principio della obbligazione», come lo definiva S. Weil, e nonché ai frutti che possono venire dalla «dinamica relazionale». La scelta dell’autrice riguarda un concetto della persona (EGO) che pur essendo IPSE, cioè unica ed irripetibile, si definisce e autodefinisce considerando anche l’ALTER. In sostanza l’operazione compiuta riguarda il superamento dei teoremi classici e moderni che si appellano o al principio di «identità» (A = A, come da Durkheim a Parson) o a quello della «identità per negazione» (A = non A, come in Hegel, Marx e Luhmann) per guadagnare attraverso il «teorema dell’identità relazionale» di P. Donati quello del «riconoscimento». Dunque viene messo in discussione il meccanismo di consenso socio-politico a base economica adottato in tutte le democrazie occidentali e che negli ultimi trent’anni si è dimostrato inadeguato a controllare gli attriti di una società a somma zero. Non sfugge a Donatella Padua che il problema richiede razionalità e prudenza economica ma ad esso, e oggi più che mai, non è estraneo quello della giustizia. Varrebbe forse anche la pena di ricordare, in tempi quale quelli che viviamo caratterizzati dal digiuno della “speranza”, che nella promessa dei cosiddetti “doni messianici”, profetizzata in Isaia 11, la giustizia va a braccetto con la pace. Allora ci rendiamo conto di essere chiamati a realizzare un altro, o diverso, ordine sociale e nello stesso tempo che la razionalità economica non lo risolve del tutto. Non serve invocare a giustificazione la mancanza delle risorse e un deficit nella strategia della loro destinazione rispetto alle politiche interne di contenimento della spesa o di sviluppo almeno in alcune aree del Paese (che scontano la difficile congiuntura della mancanza di manodopera dovuta alla decrescita demografica e alla crescita delle opportunità offerte ai nostri concittadini dalla preparazione culturale). Ad essere chiamata in causa non è più nemmeno la sensibilità diversa che al problema mostrano la “sinistra” o la”destra” nostrana bensì l’insufficienza di una visione meramente utilitaria, anche quando parliamo di «pace sociale» e non solo di «benessere sociale», della vita e dei rapporti sociali. Lo scacco riguarda anche l’ambizione di un’etica astratta incapace di coniugare esigenze razionali e tensione per cui, in ogni tempo, l’essere umano è stato sollecitato a trascendere –almeno nelle aspirazioni- la propria esperienza di materiale limitazione.

Se l’utopia è l’orizzonte delle cose che possiamo sperare e perciò al vaglio delle nostre possibilità, non possiamo nemmeno emarginare l’ambizione che tocchi a noi, proprio agli uomini di questo tempo realizzare l’era dello Shālōm (pace) in attesa della quale il creato «geme nelle doglie del parto» e la sua cifra sarà l’unità dei popoli in quanto «genere umano» e destinatario, in quanto soggetto unitario, della benedizione della fecondità.



[1] G. RUFFOLO, La qualità sociale. Le vie dello sviluppo, Bari 1985, p. 17.

[2] N. LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (orig. ted. 1984), Il Mulino, Bologna 1990.

 

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