Presentazione de "Il valore delle differenze culturali" Stampa

Presentazione de «Il valore delle differenze culturali» di Donatella Padua, Perugia 3 aprile2008. 

Non credo che io debba indulgere ancora sugli aspetti positivi esplicitati, seppure sinteticamente, nella Prefazione da me sottoscritta al libro di Donatella Padua che oggi licenziamo ad un pubblico più vasto rispetto a quello costituito da coloro che ne sono i più diretti destinatari non fosse altro che per una collateralità e trasversalità di interesse. Il libro si rivolge infatti a quanti praticano la ricerca sociale tout court, ai decisori politici, a coloro che si appassionano, sebbene a diverso titolo, alla questione della composizione e della inclusione sociale, agli osservatori della fenomenologia sociale, a quanti osservano la società sotto l’aspetto delle patologie che l’attraversano ed anche, perché no, ai folli, agli immaginari, ai profeti disarmati, come dire ai sognatori, per ricordare una categoria antropologica coniugata secondo il politically correct, i quali continuano a credere, malgré tout, che un mondo diverso è possibile e che vale la pena concedergli sempre una possibilità ulteriore («Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» risponde Jahve ad Abramo che implora la salvezza per Sodoma – che qui assurge al ruolo simbolico ove abita l’umano ma non la giustizia- giocando a ribasso nell’ipotesi del numero dei giusti meritevoli della salvezza, Gen, 18, 32).

Oggi voglio partire da due considerazioni diverse che forse, poste accanto ed insieme a quelle di coloro che mi hanno preceduto, possono farci scoprire un valore aggiunto del testo della Padua rispetto a quello notevole che il testo contiene e che riguarda la presentazione del paradigma del Diversity Menagement costruito a partire dal modello «relazionale». Infatti questo modello, implementato da quello, implode sotto la casuazione combinatoria della necessità di preservare il corpus comunitario dell’istituzione sociale e la valorizzazione delle differenze tra le persone.

Veniamo alle due considerazioni. La prima. Nel passaggio dal XIX secolo al secolo scorso, in concomitanza con profondi processi di democratizzazione e di allargamento della partecipazione politica, la nostra società non seppe assecondare tali cambiamenti. All’inizio del Novecento, e fino agli anni Trenta, la difficoltà si espresse nei termini della incapacità, sospinta in avanti anche dalla paura, a lasciare i luoghi protetti di una condizione di vita conosciuta o, per dirla più brutalmente, a non assecondare le tendenze che si dissero «corporativistiche» e di privilegio volte soltanto alla conservazione di una disparità che polarizzava in alto, e per pochi, i diritti, in basso, e per molti, i doveri diseguali. Sarebbe però fare un torto ai conservatori di ogni epoca se nei loro confronti adducessimo, come giustificazioni possibili, solo l’egoismo e l’ingiustizia. In realtà il loro intento è più nobile ed è quello di preservare la società dalla stásis greca, cioè dall’anarchia. Allargando gli accessi al potere politico e avanzando la democrazia, aumentano infatti i pericoli per la coesione del governo della società. Come ci ricorda Gustavo Zagrebelky[1] la soluzione offerta dallo Stato liberale all’allargamento delle riserve della democrazia sociale oltre che parlamentare, alla fine dell’Ottocento, sortì gli esiti del fascismo in quanto non seppe sviluppare, grazie alle procedure democratiche, la capacità moderatrice dello Stato.

La seconda. Oggi come allora l’organizzazione statuale deve fronteggiare una nuova emergenza all’allargamento delle riserve della democrazia sociale oltre che parlamentare. Il pluralismo, l’emergenza di allora, sfida, con un aspetto del tutto nuovo, le procedure democratiche e la capacità moderatrice dello Stato. Parliamo del «multiculturalismo» che allude piuttosto alla dimensione universale e globale del fenomeno. Se una storia condivisa è il denominatore di una società definibile come “plurale”, e se è questo comune denominatore a dividere i singoli fattori che costituiscono il numeratore per giungere ad un risultato finale, ad una sintesi che è spazio dell’insieme nel quale ogni elemento continua a produrre un risultato per se stesso, il “multiculturalismo”, invece o piuttosto, mette accanto e a confronto storie tra loro estranee ed anche conflittuali. Ci chiediamo: esse sono integrabili fino a determinare o creare una nuova, nel senso che prima non c’era, vita comune? Con quali strumenti se il punto di partenza del processo è e rimane, per tutte le culture che entrano in contatto nessuna esclusa, la volontà di restare se stesse? Se nel pluralismo le diverse identità venivano percepite come una sorta di sotto-identità comune, l’esito del multiculturalismo sembra annunciare una società a culture plurime che si percepiscono come inconciliabili. La risposta allora che sembrerebbe scontata, anche perché è quella più condivisa, è il “separatismo” anche tra pubblico e privato, tra ruolo dello Stato e diritto delle comunità. Conosciamo certo le differenze che intercorrono tra il modello francese e quello americano ma conosciamo anche la loro specularità rispetto agli esiti che sono uguali nelle banlieux francesi, nei quartieri chinatown americani, negli slum (neighborhood) inglesi. Una sorta di mosaico culturale nel quale lo Stato la fa da guardiano o da buttafuori secondo la risposta che una politica cosiddetta di integrazione determina. Occorre invece riannodare i fili della integrazione con una operazione di sottrazione figurativamente rappresentata dalla g presente nella parola integrazione e con una successiva azione di addizione riguardo però ai compiti che la nuova parola, che per sottrazione abbiamo creata, contiene e prefigura. La parola allusiva è «interazione». Essa riannoda, tesse, si protende, si diffonde in quanto non relativizza nell’includere tutto né lo universalizza in base ad un principio o una verità considerata assoluta ma fa convergere per riconoscere, concede per decidere, assume per aprire.

Da queste due considerazioni e nella loro intersezione due conseguenze a mò di riflessioni conclusive. La prima. In un articolo del 7 gennaio 2007 intitolato «Il silenzio dei teologi», apparso su La voce di Fiore, il professor Paolo Prodi[2] analizza due fenomeni, giudicati abbastanza strani e nuovi per l’Occidente, e li illustra con queste parole:«i politici si sono fatti teologi e parlano e sparlano dei supremi principi, della vita e la morte; la teologia in senso proprio, come discorso su Dio e sulle cose ultime non parla più o non se ne sente la voce […] Il primo fenomeno della teologizzazione della politica, è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta soltanto degli “atei devoti”: essi rappresentano la punta più avanzata di un vasto movimento che in Italia coinvolge praticamente tutti i partiti: è la politica tutta in qualche modo che, di fronte alle grandi tematiche emergenti dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie […] tende a proporsi come una specie di nuova teologia o ideologia relativa agli ultimi “perché” circa la vita e la morte. Abbiamo non soltanto l’emergere dei nuovi fondamentalismi a difesa dei grandi valori dell’Occidente […] ma anche l’emergere, dopo la crisi delle grandi ideologie, […] della ideologizzazione della politica che porta alla fine della politica dell’Occidente come scienza e tecnica, come è stata costruita negli ultimi secoli, alla crisi dello Stato di diritto della libertà e della democrazia […] e della laicità come distinzione del piano teologico da quello politico». Riguardo al silenzio dei teologi, scrive il professor Paolo Prodi:«siamo di fronte ad una crisi del pensiero religioso cattolico e si può dire anche cristiano in generale» e a tal proposito ricorda il «Manifesto dei 63 teologi» del 15 maggio 1989, dopo il quale un assordante silenzio, che insisteva perché i teologi «raccolgano e propongano le domande nuove (…) o percorrano sentieri inesplorati». C’è dunque una marginalizzazione (quella della teologia ) ed una esorbitante invasione di campo (quella della politica) che inducono due limiti: quello del “silenzio” e quello del “clamore”. E se da un lato la politica perde la capacità di agire sui fatti, di comprenderli nella loro specificità senza abbandonarli alla forza dell’impulso generativo che li governa, la teologia da parte sua non evita l’esposizione catechistica o il soffocamento della reductio ad minimum della sua presenza negli insegnamenti pratici o alle singole realtà antropologiche. Ma rispetto al tema che stiamo trattando? La politica e la teologia hanno perso l’occasione di una collaborazione nel senso di sviluppare ciascuna per sé ma per l’insieme la responsabilità che entrambe hanno verso la società che è la costruzione storica di un sistema di convivenza che deve mostrasi nel tempo e nel luogo dati, capace di risultati positivi e comunque voluti rispetto anche a principi di valore riconosciuti e condivisi. Per la politica si tratta di mostrare, se ancora la possiede, la capacità di implementare la democrazia di valori umani e non solo la capacità tecnica di mettere ogni pezzo della società, considerata come una «arancia meccanica», al suo posto secondo un disegno precostituito di pace sociale. Non è così. Mettiamola come ci pare ma  … c’è un di più che la politica deve possedere per essere compatibile con l’arte di governare. E questo di più è costituito dalla capacità di compiere un atto di giustizia. Perché è proprio la giustizia, l’atto di giustizia, la realizzazione della giustizia a costituire la giustizia in sè, quasi a fondarla: l’atto di giustizia realizzato costituisce il debitum che la riguarda. Allora il “multiculturalismo” sfida la politica sul piano dei diritti umani, su quello dei vincoli identitari, su quello della pace, su quello della destinazione universale dei beni della terra (DSC): tutti temi, argomenti centrali per una politica che non coltivi l’ambizione dello “splendido isolamento”. Parlo di una collaborazione, di un dualismo fecondo tra le ragioni del bene e del male, almeno riguardo ai risultati, e quelle della politica che in quanto riguarda l’uomo che è universo etico, nella pluralità delle sue opzioni non può ignorare che sono ancora profondamente veri ed attuali per l’uomo dell’occidente i temi della salvezza e della vita, della sopravvivenza, del patrimonio per le generazioni future, della salvaguardia del creato cioè la tensione verso un equilibrio possibile tra il già e il non ancora, tra qui e l’altrove, tra me e l’altro, tra il me e l’altro perché è la presenza-compresente dell’altro che mi fa appartenere.

La seconda conseguenza la traggo da i «Dialoghi con un musulmano» di Manuele II il Paleologo[3] citati ampiamente da Benedetto XVI nel famoso discorso tenuto all’Università di Regensburg il 12 settembre 2006 che tanta polemica ha suscitato riguardo al rapporto tra fede e ragione. Alla fine di un tempo tutt’altro che breve il serrato confronto tra i due interlocutori, l’imperatore di Costantinopoli appunto Manuele II ed un dotto maestro persiano (Muddaris, professore), finisce nelle sabbie mobili ma stagnanti di ogni dialogo nel quale ciascuno degli interlocutori, resta, di fatto, all’interno del proprio sistema dottrinale. Nessuno dei due ha cercato di comprendere una buona volta come si intrecciano le differenti nozioni all’interno delle prospettive dell’altro interlocutore. Ciascuno ha riflettuto per sé e non in funzione dell’altro. In tal modo il dialogo si presenta come un insieme di riflessioni parallele su certi punti discussi, ma che non si incontrano praticamente mai. I momenti nei quali sembra crearsi una congiunzione sono praticamente rari e non sono certo questi ad imprimere alla conversazione il suo vero tono. Obiezioni e risposte sono fatte in funzione di una determinata visione considerata escludente la bontà di altre. L’altro interlocutore respinge l’obiezione e confuta la risposta, in nome della sua visione propria. Finché il dialogo resta chiuso dentro queste barriere, non c’è alcuna speranza di comprendersi, non soltanto sulle diverse posizioni, ma, più radicalmente, sul senso da attribuire all’obiezione o a ciò che viene esposto. In realtà il solo mezzo che avrebbe potuto operare questa intesa è lo sforzo di apertura all’altro. E il solo campo libero nel quale gli interlocutori avrebbero potuto incontrarsi è quello della ragione. Tuttavia calando il problema nel dibattito di oggi, ci dovremmo chiedere se la difficoltà possa essere veramente tolta. Siamo ciascuno espressione dell’ambiente, intellettuale, sociale, religioso, culturale ampiamente inteso, nel quale si solidificano le nostre identità. E senza queste ci sentiamo come l’eroe pirandelliano: uno perciò nessuno e in quanto tale centomila. La difficoltà può essere superata? Ci si può rendere estranei a se stessi per accostare il mondo dell’altro? Non si tratta di far finta ma di trovare un comune piano d’intesa, e possibilmente operare una ri-conversione. La ipotesi non appare percorribile malgrado gli sforzi che non è detto che siano bloccati dalla slealtà o dalla mancanza di rispetto piuttosto da vera e propria incapacità. Perché si tratta di perdersi, e poi? Dobbiamo allora rivolgerci a quei folli cui abbiamo fatto riferimento nell’incipit del nostro ragionamento? O dobbiamo, per concludere, attestarci su una unica possibilità data? Essa è costituita dall’argomento di convenienza che contemplando la conseguenza probabile che vogliamo evitare, toglie forza ai nostri ragionamenti apodittici astratti e restituisce ad hominem la possibilità della convergenza. Coscienza del limite vicendevole e rinuncia al salvagente costituito dalle nostre certezze.

Infine e a conclusione. È’ stato pubblicato qualche mese fa, con la prefazione di Mario Riccardi il libro di uno dei più famosi filosofi del diritto contemporanei, Ronald Dworkin[4], La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico nel quale l’autore presenta le ragioni della sua critica al positivismo giuridico rappresentato dal professore di Oxford, Herbert Lionel Adolphus Hart, che detta alquanto sbrigativamente suona: «non c’è connessione necessaria tra diritto positivo e morale in quanto sono le regole che stabiliscono quali sono le fonti autorizzate a risolvere il problema del diritto applicabile». Dworkin contesta alla radice questa tesi, sostenendo invece che la Costituzione fonde questioni giuridiche e questioni morali, facendo dipendere la validità di una legge dalla risposta a complessi problemi morali, come quello di stabilire se una particolare legge rispetti l’innata uguaglianza di tutti gli uomini. Dworkin sostiene che il soggetto del diritto, l’individuo, può rivendicare anche un diritto contro lo Stato quando questo solo in astratto o solo per alcuni, che possono costituire anche la maggioranza, prende in considerazione il concetto di giustizia. Ciò comporta che l’istituzione dei diritti è perciò cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed uguaglianza saranno rispettate. Questa concezione del diritto si affianca alla difesa dei principi di moralità politica, la libertà e l’uguaglianza considerando che questa non è quella del benessere ma delle risorse. Per dirla con don Milani «la giustizia non consiste nel dare a tutti la stessa cosa» o rovesciando «Non c’è maggiore ingiustizia di quella che dà a tutti la stessa cosa» Ed allora vedete che la teologia non né poi così lontana dalla politica e che ogni serio dibattito politico andrebbe inteso come il confronto ragionevole tra interpretazioni rivali di principi condivisi.



[1] G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, Roma-Bari 2007, p. 109.

[2] P. PRODI, Il silenzio dei teologi, in La voce di Fiore, 7 gennaio 2007.

[3] MANUELE II PALEOLOGO, Dialoghi con un musulmano, VII discussione, Ediz. S. Clemente Roma- Ediz. Studio Domenicano Bologna 2007, pp. 128-29.

[4] R. DWORKIN, La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico, Milano 2007.

 

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